La buona morte

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La buona morte

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«Tenga sgombra la mente dal pensiero dei casi sfavorevoli che le potranno capitare; che il peggiore di tutti è la morte, e se questa è bella, allora anche morire sarà il migliore di tutti. Chiesero una volta a Giulio Cesare, quel valoroso imperatore romano, qual era la morte migliore; e lui rispose che era quella all'improvviso, imprevista, quando non ci si pensa; e sebbene egli rispondesse da pagano, privo della conoscenza del vero Dio, tuttavia aveva ragione, nel senso di risparmiarsi il dolore umano.»

Queste sono le parole che Cervantes fa pronunciare a Don Chisciotte della Mancia, il protagonista del suo omonimo romanzo, a proposito della miglior morte.

Ma siamo davvero sicuri che la morte migliore sia quella indolore, che arriva all’improvviso?

Francesco Campione, nel suo saggio intitolato “Contro la morte”, sviluppa un’approfondita riflessione intorno al problema della morte.

Cosa significa vivere bene la morte?
Quando si chiede alle persone sane “come vorrebbero morire”, riporta Campione, si ottengono tre tipi di risposte: 
1. La maggior parte degli intervistati di tutte le età rispondono che vorrebbero morire nel sonno, senza accorgersene, cioè in modo istantaneo e indolore.
2. Una consistente minoranza mostra di non accettare quasi la domanda, si irrita con chi la pone, non ne riconosce la legittimità. In sostanza questi soggetti tendono a rispondere che  non vorrebbero proprio morire.
3. La minor parte degli intervistati risponde che vorrebbe morire avendo il tempo di determinare il “come” della propria morte per tentare di dare ad essa un senso valido anche per coloro che restano.

Da questi dati Campione trae informazioni su cosa può significare concretamente “vivere bene la morte”:
1. Per chi vorrebbe morire in modo istantaneo e indolore la “buona morte” è la morte senza sofferenza.
2. Per chi non vorrebbe mai morire la “buona morte” è la morte vissuta con la speranza di non morire (nei vari modi del non morie che vanno dall’essere miracolosamente salvati, al passare attraverso la morte da una vita ad un’altra vita, fino alla negazione della morte dalla coscienza).
3. Per chi vuole determinare il modo della sua morte la “buona morte” è la morte fornita di senso.

Una prima considerazione a cui arriva Campione è che vivere bene la morte non significa per tutti la stessa cosa e che, dal punto di vista psicologico, non si può accettare nessuna generalizzazione.
Se ci riferiamo all’assistenza psicologica dei malati gravi e dei morenti, continua Campione, troviamo una conferma di questa prima considerazione:
- c’è chi nel morire si preoccupa di vivere bene nel senso di soffrire il meno possibile;
- chi nel morire cerca di tener aperte le speranze di sopravvivenza anche a prezzo di sofferenze apparentemente insopportabili;
- e chi nel morire si preoccupa più di coloro che restano che di se stesso.

Occorre dunque, secondo Campione, garantire a ciascun morente la possibilità di vivere la propria “buona morte”.

1. La morte senza sofferenza
Chi desidera una morte senza sofferenza ha il diritto di chiedere un’adeguata sedazione del dolore che gli assicuri la migliore qualità di vita possibile anche nelle ultime fasi dell’esistenza.
Sussistono tuttavia dei limiti.
Gli analgesici abbassano la vigilanza, e questo è i prezzo da pagare per la sedazione del dolore.
Inoltre, in una certa percentuale di casi (10-15%) la medicina non ha mezzi sufficienti per sedare il dolore.
Il morente ha quindi due alternative: accettare il limite oppure rifiutarlo. In quest’ultimo caso l’ansia di combattere una sofferenza rifiutata può portare al desiderio di “usare” la morte come estrema risorsa dell’analgesia e il paziente può arrivare a chiedere l’eutanasia. La morte acquista quindi un senso paradossale: diventa uno strumento per non soffrire.

2. La morte con la speranza di non morire
Quando vivere bene il morire significa morire con la speranza di non morire, il morente ha il diritto di essere aiutato ad alimentare la speranza.
In questo caso, tuttavia, il rischio è quello di perdere il contatto con la realtà e di rendere troppo inautentici i rapporti interpersonali.
Infatti, per tenere viva la speranza del morente di non morire bisogna aiutarlo a negare la realtà del peggioramento della sua condizione con la conseguenza di determinare un’atmosfera esistenziale irreale e illusoria, se non peggio, cioè regressiva e autistica.
Ciò può determinare un progressivo peggioramento della capacità di autodeterminazione del morente esponendolo al rischio di manipolazioni e ad una totale dipendenza dagli eventi e dagli altri.
Inoltre, il rischio è che i rapporti tra il morente e chi lo assiste diventino falsi e inautentici.
In aggiunta, con il peggiorare delle sue condizioni il morente può ribellarsi alla realtà del peggioramento e richiedere interventi sempre più eroici che se accolti sfociano nell’accanimento terapeutico.

3. La morte fornita di senso
Secondo Campione, la morte può trovare un senso nel tentativo di morire in un modo che lasci coloro che restano nella più favorevole condizione possibile.
Campione si rifà alla filosofia della morte di Emmanuel Lévinas. Essa si caratterizza nell'essenziale per essere una filosofia dominata dall'idea che preliminare, rispetto ad ogni identificazione come esseri singolari (esseri biologici o personali), é il contatto con l’altro. La conseguenza più importante di ciò rispetto alla morte é che facciamo innanzitutto esperienza della morte dell'altro e la nostra morte la viviamo (anticipandola, temendola, combattendola, etc.) sempre in relazione a quest'unica esperienza che abbiamo della morte, che è proprio la morte dell'altro. Di conseguenza, anche di fronte alla nostra morte dobbiamo chiederci che cosa essa sarà per coloro che ne potranno fare l'esperienza cioè gli altri.

“Morire per” qualcuno, ecco il morire vero
Non si muore per sé ma per altri, perciò morire dando un senso alla morte significa capire che cosa sarà la mia morte per chi resta. Donde l'importanza del modo di morire, dato che morendo faccio qualcosa, di positivo o di negativo, per chi resta.
Se muoio lamentandomi, se muoio rimproverando chi resta di sopravvivere o di non aver fatto niente per salvarmi, tacendo loro quello che non gli ho mai detto e che morendo non gli potrò più dire; se muoio suicidandomi, se muoio rifiutando fino all'ultimo di morire perché metto al centro di tutto la mia vita personale, se muoio chiedendo a chi resta di farmi morire prima del tempo. In tutti questi casi faccio per chi resta qualcosa di negativo, muoio per loro ma dicendo loro che la mia vita più importanza della loro, dicendo loro che amo più me stesso che loro, che difendo la mia vita invece di difendere la loro anche quando solo la loro vita resterà.
Se muoio tenendo conto della sofferenza degli altri (dal consentire loro di riposarsi durante le estenuanti assistenze delle fasi terminali fino alla compassione per il loro restare soli); se muoio assolvendogli di tutti gli errori che possono aver fatto nei miei confronti curandomi, perché ora quel che conta è la loro vita e non la mia; se aspetto pazientemente che arrivi la mia ora e me ne vado senza sbattere la porta né chiedendo aiuti difficili da dare (come quello dell'aiuto eutanasico). In tutti questi casi, al contrario, faccio per chi resta qualcosa di positivo, muoio per loro nel senso che penso alla loro vita nel morire, dicendo loro che li amo più di me stesso, che difendo la loro vita più della mia, poiché ora è solo la loro vita che dovrà essere vissuta.


Fonti
Miguel De Cervantes “Don Chisciotte della Mancia” Einaudi (2015)
Francesco Campione “Contro la morte. Psicologia ed etica dell’aiuto ai morenti” Clueb (2003)

D.ssa Maria Rita Milesi - Psicologa e Psicoterapeuta Bergamo
  • STUDIO PRIVATO:
    Via Guido Sylva 3 - 24128 Bergamo
  • Iscritta all'Albo degli Psicologi della Lombardia con il N° 03/8117 dal 2004
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